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domenica 21 novembre 2010

La questione Palestinese: tra sionismo e resistenza.


phamplet palestina


IMPORTANZA DI PARLARE DI PALESTINA


Parlare di Palestina ha un' importanza e una rilevanza essenziale sul territorio pisano, dove l' Università troppo spesso spende parole di elogio e sostegno sulla storia dello stato israeliano ma tace sui crimini che ha commesso in passato e che continua a commettere nel presente; docenti filo-sionisti non mettono in discussione il diritto ad esistere di israele e, narrando la sua storia, dichiarano l' importanza che ha avuto la sua nascita per il popolo ebreo, in quanto risarcimento dei massacri subiti durante la seconda guerra mondiale e senza contemplare il peso che sta avendo nella morte del popolo palestinese: morte di una cultura e di secoli di storia.




                                                                                 
Parlarne ha importanza anche in termini assoluti, visto il silenzio sui soprusi subiti dal popolo palestinese che permea tutti i mezzi di comunicazione di massa. In una situazione in cui le varie soluzioni pacifiche teorizzate dalle istituzioni hanno sempre funzionato di fatto da ombrello protettivo all' occupazione israeliana, senza intaccare il meccanismo colonialista e repressivo dei sionisti,
si è assistito al travisamento di atti suicidi da parte di martiri palestinesi, disposti a perdere la vita in atti disperati con lo scopo di andare contro gli oppressori, non avendo altro mezzo se non quello della lotta; ciò che invece viene trasmesso al mondo esterno sono pratiche di terrorismo contro lo stato israeliano che risulta sempre, di fatto, come vittima. Se si consultano manuali di storia, programmi scolastici, mezzi di comunicazione o discorsi politici si vede come un capitolo fatto di espulsioni, massacri, stupri e villaggi incendiati sia completamente assente.
La "questione palestinese" sarebbe andata diversamente se solo avesse potuto permettersi una frazione della solidarietà mediatica di cui ha beneficiato la questione ebraica.

Cenni Storici
Il progetto sionista si basa sulla cancellazione di diritto e di fatto del popolo palestinese.
Un progetto che ha inizio a partire dal XIX sec.: nel 1895/96 viene pubblicato il “Der juden staat” il manifesto dove veniva esposto il piano per un’ organizzazione ebraica mondiale, completo di rimozione di tutta la popolazione araba dal futuro stato sionista, uno stato che avesse come requisito di appartenenza l' essere ebreo in termini universalistici.
Il vero e proprio tradimento alla popolazione araba avviene nel 1917 con la “Dichiarazione Balfour ”: una lettera che Artur Balfour, Ministro degli Esteri della Gran Bretagna, inviò al capo della Federazione sionista Lord Rothschild, dove riconosceva ai sionisti il diritto di formare uno stato indipendente in Palestina. Questa lettera ha legittimato il diritto internazionale ai sionisti di creare un “focolare nazionale del popolo ebraico” in Palestina. La dichiarazione viene firmata da Francia, Stati Uniti e Italia.
Nel 1919 gli inglesi entrano in possesso della Terra Santa e dal 1920 con gli accordi di Sèvres inizia ufficialmente l’ immigrazione ebraica.
Subentrano le prime tensioni da quando i sionisti iniziano a comperare le terre, fino a quando la Dichiarazione di Balfour stessa fa scoppiare un vero e proprio conflitto tra arabi e ebrei.
Dal 1940 i sionisti, già organizzati in gruppi di guerriglia, cominciano gli attacchi terroristici sia contro gli inglesi che contro la popolazione palestinese, fino a quando nel 1947 gli inglesi rinunciano al mandato e lo consegnano nelle mani dell’ ONU.
Con la risoluzione 181 dello stesso anno l’ ONU decide la spartizione dei territori la quale accentua gli scontri tra arabi e ebrei, dal momento che più che di spartizione si può parlare di vera e propria razzia: il 73% della Palestina diventa territorio ebraico con oltre 750.000 rifugiati palestinesi. Nel 1948 viene dichiarata unilateralmente la nascita dello stato di israele.
Altra data incisiva della disfatta araba è quella del 1967: la guerra dei sei giorni, per cui israele occupa illegittimamente la Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme est, le alture del Golan ed il Sinai, per non ritirarsi mai più nonostante le numerose risoluzioni dell’ ONU.
Nel 1993 con gli accordi di Oslo si chiede il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania e si afferma il diritto palestinese all’ autogoverno in tali aree, sull’ idea di un’ autonomia araba che avesse poteri limitati su queste zone discontinue senza che cessasse il controllo legale, militare e politico di israele. Queste richieste si formalizzano nel 1994 con la formazione dell’ Anp (Autorità Nazionale Palestinese).
La fase conclusiva di questi accordi culmina nella firma di lettere di mutuo riconoscimento tra israele e l’ Olp in cui il governo israeliano riconosce l’Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese e l’ Olp riconosce il diritto a esistere dello stato di israele rinunciando a pratiche di terrorismo, violenza e al desiderio di distruzione dello stato sionista.

E' convinzione tuttavia di molti palestinesi che gli accordi di Oslo abbiano trasformato la leadership dell’ Olp in uno strumento dello stato israeliano per sopprimere il suo stesso popolo.

Sessant’ anni di crimini di stato, quali intimidazioni su vasta scala, assedi e bombardamenti di villaggi e centri abitati, incendi di case, proprietà e beni, espulsioni e demolizioni si sono poi stabilizzati nelle politiche di sicurezza del presente che hanno il fine di governare la popolazione e di controllare il territorio.
Lo scenario attuale è quello di una colonizzazione continua in cui israele ambisce alla conquista di sempre più territori, all’ insediamento di zone privilegiate, al controllo di aree più fertili e alla canalizzazione delle risorse idriche. L’ esito è quello di una mobilitazione totale dove il confine tra militare e civile diviene solo retorica, e ciò è frutto di un’ orientamento militarista della società ebraica tutta che vede tramandare il credo della sicurezza nazionale di generazione in generazione.
Nel tempo si è instaurato un vero e proprio militarismo civico per cui le considerazioni militari hanno la precedenza rispetto a quelle politiche, economiche ed ideologiche e coinvolgono le migliori risorse umane e materiali disponibili. Quindi è chiaro come tutti gli obiettivi, pubblici e privati, siano subordinati alla sopravvivenza della comunità ebraica.
L’ obiettivo intrinseco è l’ alienazione e l’ indebolimento del popolo palestinese che, già segregato e diviso tra territori occupati e campi profughi, vede ridotta a zero sia la libertà di spostamento che l’ autonomia economica.
Quella di israele è anche una guerra di confini che fungono da dispositivi mobili e governano la mobilità umana, segnando lo status di chi li attraversa. È un regime di visti, permessi e controlli attuato nei confronti dei palestinesi. Le numerose reti infrastrutturali costruite da israele non sono attraversabili dai palestinesi e per passare gli innumerevoli check-point mobili o permanenti si deve presentare un permesso molto difficile da ottenere; anche col possesso di questi permessi è spesso impedito l'accesso a determinate aree del territorio, vietando di fatto alla popolazione palestinese la libertà di movimento e di scambio.
In ultimo l’ economia palestinese, basata principalmente sull’ agricoltura in un territorio essenzialmente arido, dipende in toto da quella israeliana in seguito alla sottrazione di tutte le risorse idriche del paese da parte dell' autorità occupante.

I Palestinesi si trovano quindi davanti ad uno stato d’ assedio permanente all’ interno del quale la loro resistenza e la loro lotta non accennano a diminuire, ma continuano invece sempre più determinate, e ciò accadrà fino a quando la dignità di un popolo usurpato delle sue radici e dei suoi diritti non sarà riconquistata: “Ogni volta che ci sparano addosso noi torniamo, per prenderne ancora.  Non fermeranno mai la resistenza!”.

Tutti/e noi non possiamo restare indifferenti ad una simile realtà! Una forma di lotta che possiamo portare avanti in solidarietà a quella palestinese è quella di informare e sbandierare la verità oggettiva su quel che sta accadendo in quelle terre, avendo una visione critica e smentendo quelle che sono le false notizie propinate dai media occidentali.


Presentazione del saggio Sposata a un altro uomo di Ghada Karmi

Abbiamo conosciuto Ghada Karmi nel maggio 2008, invitata a un convegno internazionale organizzato da ISM-Italia a Torino in occasione del boicottaggio della Fiera del libro 2008. Karmi, palestinese del ‘48, vissuta a Londra, medico, docente all’Università di Exeter, ha fatto parte della delegazione palestinese agli incontri per gli accordi di Oslo, conosce i retroscena di quella fase, ha partecipato a convegni, incontri, seminari di discussione sul problema del sionismo e delle possibili soluzioni alla “questione palestinese”. L’esperienza che ne ha tratto è divenuta un momento importante della sua riflessione sulla situazione Palestina/Israele di questi ultimi 60 anni.
Presentiamo qui il libro nella sua traduzione italiana, curata da ISM-Italia e pubblicata a settembre da DeriveApprodi. In Italia si è parlato e scritto molto sulla “questione palestinese” anzi sul “conflitto” israelo- palestinese, ma sempre secondo ‘regole’ precostituite dal discorso ufficiale, anche a sinistra.
Pochissimo sul sionismo, divenuto un tabù negli ultimi 20 anni. Solo da poco è uscita, ad esempio, la traduzione italiana della ricerca di Shlomo Sand sulla invenzione del popolo ebraico. Vedi il silenzio di giornali e riviste che si sono ben guardate dal recensire il saggio di Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina.
Vi sono molti lavori importanti in inglese e francese sui problemi e sulle responsabilità del sionismo, mai tradotti (tra gli altri Nur Masalha, Joseph Massad, Walid Khalidi, Moshe Machover, Amnon Raz-Krakotskin, etc), che pochissimi in Italia conoscono, come pure ha avuto poca diffusione il saggio di Mario Liverani, Oltre la Bibbia, Storia antica di Israele.
Pochissime le presentazioni, e in sordina, del saggio, molto serio e scevro da stereotipi di Paola Caridi su Hamas.
Il libro trae origine dalla lunga esperienza di Ghada Karmi. Scritto nel 2006 è un libro importante perché intende rispondere al discorso pubblico europeo sulla legittimità del riconoscimento dello Stato di Israele come stato ebraico, con documentate argomentazioni storiche che mettono in discussione la sua proponibilità.
Con una incalzante analisi di domande e risposte. Con lo sguardo di chi ha sofferto un vissuto personale doloroso, l’espulsione e l’esilio, ma che si pone anche dalla parte dell’“altro” e delle sue motivazioni (Karmi, vissuta soprattutto a Londra racconta della sua esperienza e delle sue amicizie nei quartieri dove la componente ebraica è maggioritaria). Con una scrittura che unisce il rigore scientifico del confronto fra molte fonti alla testimonianza ponendo in evidenza la sensibilità e l’umanità dell’autrice.
Molte sono le domande che Karmi offre alla discussione e che in sintesi definisce “il dilemma di Israele in Palestina”. Ne individua tre in particolare:
- Perché l’Occidente ha sostenuto a inizio del XX secolo il progetto di un focolare ebraico, perché ha fatto approvare nel ’48 la costituzione di uno stato ebraico in Palestina e perché ha sostenuto nei 60, e oltre, anni successivi le politiche dei suoi governi che hanno sempre violato i diritti umani e le leggi internazionali?
- Quali sono state le conseguenze per il mondo arabo?
- Quali sentimenti e motivazioni spingono gli ebrei di tutto il mondo a sostenere Israele, anche nelle sue politiche che più li mettono in condizione di disagio?
Karmi affronta per primo un tema che lo sguardo europeo non sfiora quasi mai:
a) I costi per i paesi e per il popolo arabo
Sono chiare le responsabilità europee nel “grande gioco” coloniale tra ‘800 e ‘900, le rapine di risorse, le devastazioni e i crimini, descritti da Mike Davis (v. Olocausti tardo vittoriani, per l’imperialismo inglese), da Marc Ferro (il libro nero dell’imperialismo), nelle ricerche di Franz Fanon e di Aimée Cesaire, nelle analisi di Edward Said, di Tzvetan Todorov e di Nathan Wachtel (per l’America latina).
Enormi furono e sono state le ricchezze e le risorse di quel immenso territorio che è il M.O., depredato negli ultimi secoli dai vari imperi europei con la collusione dei vertici arabi.
Karmi elenca i danni causati al mondo arabo dalla risoluzione ONU del novembre 1947 e poi dalla guerra del ’48-’49 fra Israele e paesi arabi per lo stato continuo di tensione (perché obiettivo di Israele è stato sempre quello di espandersi territorialmente oltre i confini assegnati nel 1947-48) e per l’inserimento di migliaia di ebrei provenienti dall’Europa in una terra che si definiva “non abitata”, ma che non lo era.
Qualche anno prima, nell’estate del 1941, Freya Stark, viaggiatrice e cartografa inglese e incaricata del “Foreign Office” negli anni ‘39-’43 in M.O, era a Gerusalemme, osservava gli eventi e ne discuteva con amici diplomatici inglesi: nel suo resoconto pubblicato poi nel libro “East is West” (ed. Century, London 1945), così commenta: “i palestinesi avevano già accolto circa mezzo milione di immigrati ebrei negli ultimi 25 anni. Gli arabi erano ora intorno ai due terzi della popolazione del paese, gli ebrei rappresentavano un terzo; in proporzione l’immigrazione ebraica corrisponderebbe negli Stati Uniti a 65 milioni. Se gli Stati Uniti ammettessero 65 milioni di ebrei, (o gentili o angeli), tutti in meno di 30 anni, e se ciò fosse proposto con la forza, sarebbe facile immaginare quale reazione ci sarebbe. La reazione palestinese è esattamente la stessa.” E prosegue “Se ci dovesse essere ancora un cambiamento (cioè nuove immigrazioni), queste dovrebbero essere prese solo con il consenso del paese”. Altrimenti “ci potrebbe essere una generale esplosione e una reazione violenta
nell’intero mondo arabo”.
Tutto questo era chiaramente visibile nel 1941, ma è chiaro che le dinamiche del ’48 seguivano direttamente i progetti e le regole imperiali europee dei secoli scorsi, alle quali si erano aggiunti gli interessi economici e strategici degli USA.
I costi per gli arabi sono stati e sono tuttora assai pesanti:
· spostamento di risorse verso gli armamenti e la sicurezza a scapito delle spese per lo sviluppo sociale ed economico
· stato di tensione permanente esterno/interno
· regimi autoritari, oppressione delle minoranze e delle opposizioni
· Karmi registra il crescere della povertà, non sviluppo dell’ economia e della società, scontento, paura, insicurezza, rancore, umiliazione, senso di frustrazione della popolazione, con una generazione di giovani arabi che odiano, assumono posizioni radicali e fondamentaliste sino agli attentati suicidi, forme di lotta sconosciute nella società palestinese contadina e pacifica.
· frutto anche di “maestri cinici”, ma soprattutto della disperazione e di una oppressione senza speranza. (Cfr. analisi di E. Said (art. del 2002-2003 in Il vicolo cieco di Israele, Datanews 2003) e le ricerche di Eyad el Sarray sulle cause psico-sociali della violenza
· frammentazione e distruzione del fronte arabo, divisione fra arabi “moderati” e
arabi “fondamentalisti”; divisione in fazioni di tipo religioso, corruzione e forme di collaborazione; si istaurano regimi arabi complici, per i propri interessi finanziati dall’occidente con milioni di dollari ogni anno, in aiuti militari, trattati economici sfruttati dalle classi più abbienti.
b) perché l’Occidente sostiene Israele?
Perché l’Europa? Se si fa spesso riferimento ai sensi di colpa per la responsabilità europea nell’Olocausto, meno conosciuto e molto interessante è il discorso di Karmi sul ruolo e sull’efficacia delle idee del “sionismo cristiano”, sulle sue profonde radici nell’ideologia razzista e coloniale europea dal XVI secolo, dalla Riforma protestante(di questo in Italia si conosce pochissimo, lo si può ritrovare in Masalha e altri).
Secondo le profezie bibliche, riprese dai movimenti protestanti millenaristi, il ritorno degli ebrei in Palestina e a Gerusalemme è il preludio essenziale al 2° avvento di Cristo in terra (ci sarà la battaglia finale fra Bene e Male, l’Armageddon, la conversione degli ebrei, con il Regno di Dio in terra). Questa ideologia si inserì gradualmente nelle chiese protestanti (in particolare evangelici e dispensazionalisti), nelle loro scuole domenicali, nell’opinione pubblica, nella letteratura dell’‘800, nella politica. Molti sono stati i politici vissuti in quel clima ideologico e culturale che ha portato al 1917 (da Lord Shaftesbury, a Balfour, a Lloyd George).
Il discorso univa l’ideologia religiosa a quella del predominio occidentale coloniale e al razzismo europeo che preferiva spostare le comunità ebraiche “aliene” altrove, meglio se in un Medio Oriente da tenere sotto controllo e del quale sfruttare le risorse. [Cfr. Joseph Massad ne “La persistance de la question palestinienne”, sul processo europeo di “alterizzazione” di ebrei e musulmani sin dal medioevo con le Crociate, nel periodo coloniale e sulla acquisizione della mentalità razzista europea da parte del movimento sionista di fine ‘800: “per divenire europei essi dovevano emigrare in Palestina e “alterizzare” gli arabi palestinesi ivi abitanti”].
Ora infatti gli ebrei israeliani sono riconosciuti in Europa come “gente come noi”, abili a sfruttare credenziali democratiche e addirittura socialiste (p. 125).
Negli USA il sionismo cristiano contemporaneo ha forte presa non solo con il gruppo dei neo-cons che ha controllato negli anni ’90 la politica dei governi Bush, ma anche di Clinton e forse ancora con Obama, ma con 35 milioni di americani cristiani sionisti, 80.000 pastori protestanti, con centinaia di radio e tv, con circa il 31% della popolazione.
Perché gli USA sostengono Israele? Sotto la copertura ideologica religiosa, l’obiettivo strategico più importante per gli USA, attore imperiale del secondo dopoguerra, è quello di avere Israele come paese alleato in M.O., paese chiave per la difesa dei suoi interessi strategici.
Karmi affronta il dibattito intercorso fra Mearsheimer, Walt e Chomsky, se si può affermare una maggiore influenza della lobby ebraica sulla politica governativa USA o, se invece è la strategia geopolitica americana a sostenere le politiche israeliane (gli USA sono altamente responsabili e non ricattabili, non esiste una lobby ebraica più forte, questa la tesi di Chomsky). E propende per la prima ipotesi ma il dibattito può risolversi affermando una stretta convergenza fra interessi USA (e anche dei maggiori paesi europei) con quelli dello stato ebraico, a partire dagli anni della guerra fredda (vengono analizzati gli aiuti francesi per l’arricchimento dell’uranio negli anni ’50, i trattati commerciali e militari successivi, gli aiuti di risarcimento dei tedeschi, le forniture di armi e di addestramento di Israele in America Latina a sostegno della politica USA negli anni ’60 e dei regimi autoritari sudamericani sino all’appoggio indiretto, ma consistente, di Israele nella guerra USA in Irak a partire dal 2002-2003.
Gli aiuti militari israeliani in Africa. Gli accordi con l’India.
In generale interessi economici e militari intrecciati e interdipendenti tra Occidente e Israele, hanno portato, afferma Karmi, alla continua instabilità in M.O. e alle guerre di questi ultimi decenni, con distruzione di territori e di società intere. Milioni di profughi, non avvio della modernizzazione e povertà per la popolazione.
Senza parlare della situazione palestinese (foglio 3 rif. pag. 31)
b) Perché gli ebrei del mondo sostengono Israele?
Karmi analizza le difficoltà degli ebrei europei tra ‘800 e ‘900, divisi fra un processo di assimilazione in un contesto dove prevalevano razzismo e discriminazione, ebrei visti come corpi estranei alla società, e il processo di identificazione con un territorio, la Palestina, per molti “alieno”. Solo a seguito delle discriminazioni e dei pogrom a inizio‘900, molti decisero la partenza per la Palestina.
Due sono gli elementi fondamentali dopo il 1948, secondo Karmi, per l’identificazione di tutti gli ebrei del mondo con Israele:
· una identificazione emotiva , in particolare dopo il 1967 e il 1973 (gli ebrei sono chiamati a sostenere e a difendere Israele a seguito delle guerre intercorse con i paesi arabi (V. anche Edgar Morin). Sia per un sentimento di base religioso
costruito sul discorso biblico del diritto alla “terra promessa da Dio al suo popolo”, dopo l’esilio e il ritorno nella terra dei padri (v. film ISKOR di Eyal Sivan), sia per il riferimento costante all’Olocausto dopo il 1962 (processo a Eichmann) per costruire un’identità ebraica omogenea in Israele (v. la ricerca di Idith Zertal (La Nation et la Mort) sulla costruzione della nazione ebraica intorno al mito della Shoah, anche per gli ebrei provenienti dai paesi arabi). “Mai più dovrà avvenire una cosa simile” e “Ora Israele è la terra del popolo ebraico nel mondo”
· un’identificazione storico–ideologica , la proposta del sionismo era riuscita a combinare aspetti di laicità e di nazionalismo con la tradizione religiosa della promessa biblica.
Israele diviene il centro identitario per tutti gli ebrei del mondo e qualunque critica che attenti alla sua dissoluzione come stato ebraico diviene oggetto di sospetto e di odio paranoico. Tutto purchè non si critichi il diritto all’esistenza di Israele come stato ebraico. Uno Stato ebraico, che ha come tesi irrinunciabile, come primo principio dell’identità ebraica, il diritto esclusivo di quel popolo su quella terra. La caratteristica dell’esclusività ritorna nelle analisi critiche di molti autori, fra cui
Joseph Massad, ma ritornano anche nella testimonianza di Freya Stark, che notava “la sensazione/atmosfera di esclusione” che circonda il contesto sionista in Palestina, tranne alcune eccezioni come il gruppo intorno a Yehuda Magnes (Brit Shalom). E lo ritroviamo, ad esempio, in tutto il lavoro di ricerca di Chaim Simons sul concetto di ‘transfer’ nei riguardi dei palestinesi sin da fine ‘800 (vedi Herzl).
Karmi afferma la insostenibilità della tesi di un “popolo” immutato nei secoli (vedi Shlomo Sand).
Karmi dice sì alla definizione di un gruppo sociale, sì come nazione, ma non come diritto esclusivo ad una terra. Non ci può essere una storia diversa per le comunità ebraiche che possono essere definite una comunità immaginata con una narrazione
unificante inventata, come è avvenuto per altri popoli (v. tutta la discussione fra gli storici negli anni ’90 sulle comunità immaginate, v. B. Anderson e Hobsbawm).
Questo sono alcuni dei punti principali analizzati da Ghada Karmi: la sua analisi continua con le trasformazioni della realtà sul terreno (anni ’90-2010), frutto di ‘negoziati di pace’ senza fine, con l’ambiguità della opzione “due stati” e il suo fallimento (Israele non ha mai voluto effettivamente uno Stato palestinese al suo fianco, autonomo e sostenibile) sino alle conseguenze odierne. Con l’impossibilità delle soluzioni parziali finora proposte, che segnano anche il fallimento del progetto sionista.
Si pone il problema di nuove ipotesi: Karmi riflette su uno Stato binazionale o su uno Stato unico laico e democratico? Vi sono stati in Europa nell’ultimo decennio molti dibattiti, incontri e seminari di discussione fra israeliani e palestinesi. In Italia è la prima volta che il tema si può affrontare ampiamente a partire da questo libro, in incontri pubblici.
E’ una sfida. Siamo felici di essere qui con Ghada Karmi per discuterne insieme.
a cura di Diana Carminati

Diana Carminati

- già professore associato di Storia dell'Europa contemporanea presso l'Università di Torino (sino al 2004), si è occupata di problemi di storia della Resistenza in Piemonte; successivamente di studi su identità locale e identità nazionale in Italia a fine ‘800, su nazionalismo, razzismo, militarismo, guerra e sistema patriarcale, studi di storia delle donne e storia di genere, di cui sono stati pubblicati articoli.
-Nel dicembre 2009 ha fatto parte del VivaPalestina Convoy (20 giorni di viaggio) che il 6 gennaio è entrato a Gaza, via El Arish (Egitto).
-Dal 2006 fa parte di ISM-Italia,  che ha curato attività culturali (cura e traduzione libro di I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi 2008 e altri) e seminari internazionali, per il sostegno alle campagne di BDS e PACBI, lanciate dal 2005 dalle organizzazioni palestinesi della società civile, v. sito ISM-Italia
-Nel 2009 è stato pubblicato presso Derive/Approdi il libro "Boicottare Israele: una pratica non violenta", di cui è coautrice con Alfredo Tradardi.


Ghada Karmi

Palestinese, è medico, scrittrice e docente universitaria, è presidentessa dell'Associazione delle Comunità Palestinesi in Gran Bretagna. Nacque a Gerusalemme, ma la sua famiglia fu costretta a riparare altrove nel 1948, dopo l'occupazione israeliana e la famiglia si trasferì in Inghilterra. Ghada Karmi e' accademica e ricercatrice e scrive frequentemente sulla questione palestinese, apparendo spesso sui media arabi e britannici. E' anche a capo della Campagna Internazionale per Gerusalemme. Nel 2002, ha pubblicato la sua autobiografia, In Search of Fatima.

 Kevin Ovenden
Nato nel 1968, è un attivista politico britannico ed organizzatore di Viva Palestina. Ovenden è stato a bordo delle Mavi Marmara dove si trovava  al momento dell’attacco da parte dell’esercito israeliano; è stato poi arrestato e detenuto nel deserto del Negev.
E’ stato leader del convoglio vivapalestina5, entrato a Gaza il 21 Ottobre 2010.



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