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giovedì 11 ottobre 2018

In su l’orlo a sedere: giovani, studenti, ordinati e diffidati



1. 
Se non si chiede il permesso – con debito preavviso, e nel rispetto di tutte le clausole assicurative e di sicurezza e in una situazione pienamente regolare, s’intende - non si è autorizzati a… incontrarsi. Succede all’Università di Pisa. Se passeggi in città, prendi un gelato non puoi sederti sui gradini. Succede a Pisa. Non sarà il medioevo che incombe, il fascismo che torna, l’autoritarismo e tutte quelle cose lì un po’ naif… ma certo queste misure stanno strette, perché è l’ottusità a stare stretta. L’ottusità sì, per ora c’è soprattutto questa, contro di noi. Noi che non abbiamo da difendere il lume del progresso contro il ritorno dell’età buia perché il corso degli eventi non ha mai mantenuto le sue promesse: emigriamo, fatichiamo, versiamo denaro in tasse e pagamenti vari tanto, quanto e più di ieri. Mamma e papà si aspettavano dell’altro per noi: saremmo già dovuti essere grandi e indipendenti. Invece no e ci tocca pure consolarli. Viziati! Altro stress che s’aggiunge, ma che ci si può fare, il tempo non si ferma mica. Ormai siamo in un’altra epoca, quella che non regala nulla. 
2.
L’ottusità è contro di noi ed è pericolosa. Ha i suoi schemi che rispondono a una realtà come dovrebbe essere in base a qualcuno o a qualcos’altro. Il problema del Magnifico Rettore non è che sia affetto da una sindrome di oscurantismo ma il fatto che sia letteralmente ossessionato dalle regole, dalle procedure, da principi di buon senso ma esterni alla vita in comune e alla quotidianità delle cose che permettono agli studenti di questo ateneo oltre che di studiare, sgobbare, correre dietro ai prof., ai crediti, ai laboratori, di... vivere, ovvero di usare questa università, i suoi spazi e le sue occasioni e non di esserne usati. C’è sempre una lotta per sottrarsi a ciò che ti trasforma in un oggetto di un altro processo, nel suo prodotto. È un po’ la vita che si ribella a questo anche se poi non sa bene dove andare a sbattere, ma quello conta poco. È un altro problema. Perché comprendere cosa si sta facendo, dove e con chi lo si fa è più importante di apprendere quello che si sta facendo. Ma questo non si ritrova nei fini istituzionali dell’università. Ne rappresenta anzi il contrario. È ciò che ognuno di noi prova a scoprire ogni giorno per dare un senso ai propri sacrifici stabilendo dei significati tra il mondo regolato dell’istituzione e quello che sta fuori: le altre esperienze possibili della nostra vita. Belle, appaganti, gratificanti.
3. 
Non siamo degli idealisti, o non siamo soltanto degli idealisti: vediamo come vanno le cose, siamo nell’epoca che non regala nulla e questa università è decisamente avara. L’ideale della Cultura, dell’emancipazione attraverso il Sapere… questi luoghi comuni con le iniziali maiuscole appartengono all’era mitica delle nostre società. L’università deve formarci. Ci siamo iscritti anche per questo, per formarci per questa società, prima ancora di aver formulato un giudizio su di essa o rinviandolo indefinitamente per non dover fare i conti con noi stessi. Ma almeno questo investimento deve avere condizioni accettabili, cercando di non vivere male. Non vogliamo neanche inscenare uno scontro tra le forze della cultura alternativa ricca e fantasiosa e quella della cultura ufficiale babbiona e inaridita armata di diffide contro l’insolenza. Siamo una generazione annoiata dal tiro al bersaglio sulle colpe del sessantotto, dei sessantottini,dei loro nipoti e di tutte le loro caricature più o meno fedeli all’originale. Non si tratta di questo. Si tratta però di avere delle occasioni per sottrarsi, respirare, guardare le cose dall’esterno e comprendere se questo percorso di studi e di vita alle loro regole, a questi ritmi, con questi contenuti sia un’esperienza vantaggiosa. 
4.
Allora poco importa si tratti di un cineforum, di una serata tra studenti, di un dibattito in uno spazio aperto prendendo a calci una porta per liberarlo dalla polvere. La cosa più importante è conquistarsi le occasioni in questa università per comprenderla assieme e magari cambiarla di segno. Può bastare un incontro, una conversazione inaspettata, anche su un gradino, contravvenendo nonostante il rischio della contravvenzione all’imperativo sociale di stare al tavolino, consumare e tornare a casa con 20 euro in meno. Le strade già tracciate dal mercato sono già state battute da altri. Chi ci costringe a percorrerle, a non deviare, parla in nome di un buon senso che si confonde con il conformismo del “bisogna adeguarsi, è così che vanno le cose”. È così che ci hanno rifilato questa corsa al massacro per un’aspettativa di futuro avvelenando ogni giorno il senso di quello che facciamo. Vogliamo invece rimboccarci le maniche e scoprire dell’altro. Saremmo già dovuti essere grandi e indipendenti.
5.
Cosa c’entrano queste divagazioni con un’ordinanza distopica e un Rettore paranoico che dispensa daspo universitari per ogni manifestazione extra-istituzionale che si svolge tra le mura dell’ateneo? Tutto e niente. Si tratta però di scoprire un desiderio radicale per affrontare queste cose con qualche strumento in più oltre allo sdegno per i loro effetti liberticidi. Abbiamo bisogno di lottare per un nuovo significato di questa università e della nostra gioventù in questa città anche e soprattutto battendoci contro la regolamentazione totale di esperienze di studio, di vita, di socialità già da tempo erose nella loro possibilità di diventare nostre esperienze di studio, di vita e socialità per la nostra crescita e la nostra libertà. C’è una decisione che si può prendere: basta con l’ottusità di questi minchioni, abbiamo ben altro da guadagnare. Abbiamo da restituire quello che facciamo a noi stessi, l’università, lo studio, i rapporti con gli altri.
6.
Diogene il cinico viveva in una botte. Un po’ sbattuto per strada, con nulla di suo se non una ciotola di legno. Raffaello lo raffigura seduto stravaccato sui gradini della Scuola di Atene, solo, in mezzo all’affresco. Irrideva le convenzioni e per questo veniva deriso anche se non multato. Quando venne venduto a Creta come schiavo gli si chiese cosa sapesse fare e rispose solo: “comandare gli uomini”. Vide quindi un tale con un mantello di porpora e chiese di essere venduto a lui. “Quest’uomo ha bisogno di un padrone”, sentenziò.
A chi gli disse che il vivere è un male così corresse: “non il vivere, ma il viver male”.
Collettivo Universitario Autonomo
Pisa, ottobre 2018