Una
ricercatrice italiana, Roberta d'Alessandro, ordinaria di linguistica
in Olanda, sbotta qualche giorno fa contro la Ministra Giannini che
si complimentava per i successi della ricerca italiana. La D'Alessandro, vincitrice di un fondo di ricerca europeo (ERC),
puntualizza: qui si parla di ricerca di italiani, non italiana;
ricerca di italiani fatta all'estero perché in Italia le porte ci
sono chiuse e la Ministra ne è corresponsabile. Scoppia la polemica.
Arriva la trasmissione Piazza Pulita. Si accoda anche il
giornalista Cancellato, direttore del giornale on-line Linkiesta, che
punta il dito contro la ricercatrice: “cara Roberta, se la
ricerca in Italia fa schifo la colpa è anche un po' tua, perché hai
preferito la fuga alla lotta”. A chiudere il cerchio un risentito Renzi borbotta: "Se volete andare all'estero fatelo. Se pensate che sia meglio, fatelo. Ma noi faremo dei nostri istituti i luoghi al top del livello mondiale, faremo dell'Italia un centro capace di attrarre ricercatori italiani e di tutto il mondo". La mission Italia è affare per veri duri, inadatta alla codardia dei 'cervelli in fuga'.
Un punto
di vista interno ai movimenti, ben esemplificato nel contributo di Exploit Pisa, protesta: “di lotte contro lo sfacelo
dell'università e contro la precarietà ce ne sono state parecchie
negli ultimi anni”. Ma... stiamo parlando esattamente della
stessa cosa? Nella querelle d'Alessandro - Giannini parliamo
delle macerie dell'università o ci stiamo confrontando con il piano
della sua ristrutturazione, con alcuni suoi tratti di modernità
capitalistica? I fatti al centro della polemica parlano
dell'integrazione negli standard europei di promozione della ricerca
e di promozione del ricercatore attraverso la ricerca.
Si parla
di università, formazione e ricerca. Ma c'è tanto di rimosso in
questa vicenda.
Occorre
quindi chiedersi innanzitutto a quale altezza si giochi questa
polemica. I dibattiti su fondi e finanziamenti destinati a università
e ricerca in Italia contrappongono attori già interni, anche se non
per forza riconosciuti, al sistema dell'alta formazione e della
ricerca, cancellando, di fatto, la normalità del percorso
universitario, per gran parte del quale quella sfera appare solo come
un miraggio. Per ogni Roberta D'Alessandro quanti altri percorsi di
studenti-ricercatori si interrompono? Quanti, anche dopo
un'esperienza all'estero, non vedono il contratto di ricerca
rinnovato, quanti, nel corso dei propri studi, si sono visti
dimezzati i posti o le borse per il dottorato di ricerca al quale
ambivano o addirittura la chiusura della scuola di dottorato? Quanti
si sono visti, alla triennale, la chiusura o il deturpamento della
magistrale nella quale avrebbero voluto proseguire i propri studi?
Quanti dovranno sborsare ancora altri quattrini per partecipare
all'imminente nuovo ciclo di TFA in attesa di una cattedra per non si
sa quanti anni nel limbo indefinito delle graduatorie senza percepire
alcuna forma di reddito? Quanti si troveranno senza un TFA e un bel
punto interrogativo al termine dei propri studi?
Il
sistema università, nonostante si riproduca in ogni sua sede, aula e
laboratorio su questa distruzione di capacità e di aspettative,
continua a porre come perno della competitività degli atenei il
mantra della ricerca, intendendo questo come livello di
valorizzazione e accumulazione sovraordinato e separato da un
percorso formativo allargato e di massa. Il sistema formativo si è
ristrutturato sulla rottura del rapporto tra ricerca e didattica. La
trasformazione che ne è conseguita è utilizzata contro di noi per
macchinizzare e rendere sempre più povera la nostra formazione,
sacrificandone le eccedenze che pure si producono in questa e che
vengono espulse da una valorizzazione sistemica. Quali comportamenti
vivono di questa rottura? Come indirizzarli per l'interruzione di
cicli di accumulazione che rappresentano per i più il campo
dell'impoverimento (non solo materiale) e della subalternità? E' il
nodo della truffa e della promessa tradita che va sollevato.
Il campo
della ricerca è l'internazionalità, quello del mercato, non quello
della comunità scientifica, che assorbe capacità e competenze sulle
disponibilità di un'impresa sociale complessiva ordinata contro i
livelli bassi della gerarchia sociale di classe. Per quanto Renzi si affanni a rivalutare il prodotto nazionale, succede allora che, nella configurazione del mercato internazionale, esistano differenti poli di
valorizzazione e accumulazione, i quali certo stanno più in Olanda
che in Italia, i quali certo stanno più negli atenei del nord che in
quelli del meridione italiano. Non stupisce che l'emigrazione,
o fuga che dir si voglia, rappresenti una delle strategie prime di
autovalorizzazione individuale per l'accesso ai livelli alti
dell'integrazione sistemica.
Questo va
contro il bene pubblico (o comune?) università? L'impoverimento di
un livello basso del sistema formativo, quello che brucia tante
capacità, sul lungo periodo renderà più difficile l'emersione
dei talenti dalla palude. Ma è un problema sistemico lottare per
contraddistinguersi in quell'aula di ingegneria elettronica dove il
primo giorno di lezione del primo anno di università ti dicono che
quello a fianco a te non te lo ritroverai più alla fine degli
studi... se ci arrivi? In realtà la cattura dei talenti non di
necessità passa per la selezione entro un sistema universalistico.
Non per forza passa per l'individuazione dei migliori, quanto per la
promozione di una compatibilità ai codici della valorizzazione e
dunque per la distruzione dei margini di autonomia nel processo
formativo. La meritocrazia resta una scadente ideologia capace
però di far funzionare un buon meccanismo di selezione di ciò che
serve. Il resto si può distruggere. Il riflesso di questa
percezione, quand'anche non realizzata, risiede nella sensazione di
tradimento: “In Olanda
sono diventata docente ordinario a 33 anni. Nel
frattempo ho fatto diversi concorsi per rientrare in Italia. E,
guarda un po', arrivavo quasi sempre seconda”, dice la
ricercatrice. Ma sarebbe eccessivamente consolatorio, proprio per chi
ce l'ha fatta, credere si tratti di un problema di raccomandati, o
solo di raccomandati.
Nell'accelerazione
dei processi post-riforma baronato e nepotismo, come forme di
cooptazione clientelare, sono già state aggiornate alla modernità
tecnicizzata della valutazione che sempre riproduce la stessa
necessità di alienare a qualcuno o a qualcosa parte delle proprie
capacità per affermarsi. Restano allora le stesse frustrazioni,
lo stesso senso di impotenza, che continuano a ricadere, in una forma
e in un'altra, su quelli che non ce la fanno, sui più dei quali
comunque un percorso di studi ha incrementato capacità e competenze.
Occorre
lottare, pontifica Cancellato. Certo, ma non basta rispondere che
siamo quelli che ci hanno provato. Le guerre combattute glorificano
gli eroi dei vincitori, non i nostri. Serve piuttosto capire dove si
riconfigura un terreno dello scontro oggi.
Avanziamo
una prima ipotesi: se l'eccellenza è l'orizzonte
dell'integrazione, perché ci sia la possibilità di organizzare
uno scontro su un conflitto di fatto sulla dispersione e distruzione
di capacità, serve che guardiamo agli sforzi per l'integrazione,
più che alla sua forma compiuta. Questa forma è infatti a completa
disposizione delle forze della cattura. L'unico ambito di attivazione
e valorizzazione soggettiva nel mondo universitario è ad oggi il
tentativo di integrarsi nel sistema valutativo (retoricamente
chiamato meritocratico): esami, crediti, PhD, etc.
In altre
parole, il ricercatore – per nominare una figura dall'integrazione
precaria e guadagnata a caro prezzo - chiede il riconoscimento di una
professionalità, di capacità e competenze. Per fare questo cerca di
dialettizzarsi, dimostrando, ad esempio, che la ricerca è lavoro,
anche in mancanza di una minaccia politica capace di strappare un
riconoscimento. Non sta infatti scritto da nessuna parte che ciò che
ora non è pagato debba esserlo solo perché è giusto così
(giusto per chi?). Chi si permette di contestare la forma
dell'integrazione è chi ne è parzialmente interno. La contestazione
non arriva mai fino a negare la propria posizione perché guadagnata
con sacrifici. Chi non è integrato invece la desidera questa
posizione e non la contesta. Ma è solo in chi si orienta a questa
posizione che si può rintracciare un punto di rottura sulle
condizioni stesse dell'integrazione, sulla loro insopportabilità.
Solo una
sovversione di gerarchie e priorità sistemiche può attivare un
processo di trasformazione, ma per realizzare questa possibilità non
basterà la richiesta di riconoscimento per i ruoli subalterni nel
funzionamento della macchina; serve inceppare la macchina dagli
sforzi orientati all'integrazione sistemica, sulle condizioni
contrapposte all'integrazione. Queste rappresentano il punto di
rottura e dunque l'oggetto dello scontro per invertire il segno di
ciò che serve per rompere e ricostruire la macchina formazione: non
il riconoscimento dei nostri sforzi e della loro qualità ma la
rivalutazione dei nostri sforzi per una loro riqualificazione.
Cosa
esprime l’eccellenza di cui tanto si parla e cui tanti ambiscono?
Chi la usa e per quali fini? Il suo valore socialmente prodotto e la
sua ricchezza, ad ora incorporati nella macchina produttiva
formativa, vengono redistribuiti o semplicemente vengono
rivalorizzati in circuiti superiori e separati dai livelli bassi
della gerarchia sociale? L'eccellenza rappresenta l'unica forma di
valorizzazione sistemica degli sforzi individuali negli studi. E'
questo l'orizzonte dell'integrazione attraverso il quale passano gli
investimenti soggettivi di ciascuno: dal voler cercare una soluzione
individuale emigrando, al desiderio di tornare nel proprio paese con
un curriculum di alto livello, sperando di venire assorbiti
socialmente.
Sono
queste le promesse a cui si sacrifica l'eccedenza soggettiva,
organizzabile altrimenti, in senso antagonista, per stare al passo
col ritmo degli appelli d'esame, della valutazione e della
formazione; a cui si sacrifica ogni minuto di tempo libero, di
attività umana, di realizzazione di sé alienando a una gerarchia
esterna tempo, forze e aspettative di vita.
L'attuale
subalternità e lo sforzo per stare dentro questa macchina
rappresentano lo stesso punto di forza per trasformare l'attuale
mondo formativo agendo la rottura che al suo interno da anni si è
prodotta.
“Formazione come nostra riformazione, come luogo in cui ci si
ri-formi cercando di tornare interi. E ri-soggettivazione. Il centro
della formazione è: ci autodistruggiamo contenti e divertiti, o
cerchiamo di uscire dal capitalismo?”
R.
Alquati