Cosa sta succedendo con la nuova
dipartimentazione. Perché è possibile resistere e attaccare anche
se questa Università ci frana sotto i piedi
Trovarsi orfani del corso di
laurea a Filologia e rincorrere i corsi singoli di transizione
I recenti consigli del
dipartimento di filologia e linguistica (ex-facoltà di Lettere e di
Lingue) e le relative varie commissioni attivate sulla didattica,
stanno procedendo in questi mesi a riorganizzare l'offerta formativa
in previsione del prossimo anno accademico. Com'è ora e come sarà
dopo: diverse magistrali scompariranno, altre verranno accorpate
minando la continuità tra triennali e magistrali.
Ecco alcuni esempi. I
curricula di Orientalistica, Comparatistica e Linguistica nella
triennale di lettere spariranno, le magistrali in Lingue
e Letterature Moderne Euroamericane (LEA)
e Lingue e Letterature e Filologie Europee (LEFE) Orientalistica e
Traduzione saranno soppresse. LEA e LEFE verranno accorpate
in un'unica magistrale (classe LM 37), così come Traduzione e
Linguistica (classe LM 39 che mischierà percorsi di lettere e di
lingue).
Possiamo pensare a questa
nuova possibile “(dis)organizzazione” dei dipartimenti come ad
uno di quei maldestri tentativi di normalizzazione dello
sconsiderato (in quanto già di per sé pieno di forzature
didattiche) processo che ha portato alla fusione della facoltà di
lingue con quella di lettere.
In realtà, “maldestro
tentativo” forse è dir poco se si pensa anche solo ipoteticamente
a tutto ciò che potrebbe comportare tale ulteriore trasformazione
dei percorsi di studi in questione, in particolare sulle modalità di
passaggio dalle triennali alle magistrali della nostra Università.
Proviamo ad ipotizzare
questo azzardato accorpamento di linguistica e traduzione. Chi potrà
accederci liberamente senza dover sopperire a una qualche lacuna (di
cui, oltretutto, il singolo studente non potrà avere alcune
responsabilità se non quella di aver seguito il percorso di studi
impostogli dalla sua stessa triennale)? E come si tenterà di
“riassorbire” gli studenti laureati che con questo accorpamento
si ritrovano senza una magistrale pensata come continuazione del loro
indirizzo di studi?
A riguardo pensiamo anche
solo a come, già tuttora, (mal) funzionano i corsi singoli di
transizione: un limbo dove rischia di precipitare, più o meno
incoscientemente, qualsiasi studente che tenta un percorso nemmeno
così insolito (come adesso può accadere nel passaggio da una
triennale di lettere alla magistrale di informatica umanistica).
Infatti, l'Univerisità di Pisa, con tutte le sue pretese di apparire
chiara e limpida (attrattiva?) nelle presentazioni dei suoi
regolamenti a chi da fuori cerca informazioni su una possibile
iscrizione, non è mai però particolarmente esaustiva nello spiegare
come può succedere che passi quasi un anno prima che uno studente
possa risultare iscritto alla facoltà che desidera sentendosi un
mezzo-quasi studente; il tutto semplicemente perché non si
soddisfano i requisiti definiti necessari per accedere a determinati
corsi di studi, perché bisogna saldare un “debito formativo” mai
contratto (spiegazione ufficiale) o, molto più chiaramente, perché
le modalità di accesso imposte risultano atte esclusivamente a
complicare la vita agli studenti, portandoli a far loro perdere
tempo, voglia e soldi.
Moltiplicare gli
sbarramenti a Economia
Grosso modo lo stesso
effetto depressivo sortiscono le misure adottate di recente in
Economia. Innanzitutto un appello d'esame è stato eliminato
dal calendario didattico inoltre il consiglio di dipartimento ha
avviato un'indagine sulla media dei voti degli studenti di Economia
al fine di innalzare il voto di laurea minimo necessario per
accedere alla laurea magistrale (la cosiddetta “soglia”).
Eppure questa moltiplicazione di sbarramenti sembra non obbedire
altro che ad una logica di scoraggiamento imperniata su una
competitività che però non garantisce di premiare proprio nessun
merito.
Sono recenti i risultati delle indagini
di Almalaurea i quali affermano che il “rendimento” della
laurea è in Italia è decisamente basso. Chi lavora con una
laurea in tasca guadagna solo l'11% in più di chi è diplomato e
basta. Per Visco, governatore Bankitalia, bisogna adeguare il sistema
formazione ai principi di flessibilità, competitività e rapido
cambiamento del mondo del lavoro, omogeneizzare il mercato. Ma di
fatto già si sta dando un'omogeneizzazione: salariale e di classe. I
“fortunati” laureati guadagnano tra gli 800 (se con laurea di
primo livello) e i 1000 euro al mese (se con laurea di secondo
livello). Solo un terzo, il 33% dei laureati, ha un impiego stabile.
Quindi debiti formativi,
soglie, riduzione delle possibilità nel proseguire e
nell'intraprendere una carriera accademica sembrano essere i
dispositivi tramite i quali strutturare la rimercificazione di una
forza lavoro in formazione alla quale viene imposto un saldo negativo
tra aspettative e distruzione di capacità, tempo e reddito negli
studi.
Ma allora, come unica
alternativa tra l'abbandono e la scommessa sulla competitività, ci
resta solo una rassegnata vita studentesca? No, sentirci in colpa
anche per l'incasinamento dell'università proprio no... proviamo
piuttosto a risalire una catena di responsabilità.
Professori: utili
idioti, ignavi o responsabili a pieno titolo?
Nel dipartimento di
Filologia, ad esempio, le ipotesi di riorganizzazione attuali sono
filiazione diretta delle scelte che all'inizio dell'ultima estate
hanno portato il consiglio
di dipartimento di Filologia, a togliere l’appello d’esame di
dicembre. Fin da subito apparve chiaro come, al di là di una poco
convincente scusa di adeguare i calendari delle due ex facoltà, le
responsabilità di questa scelta fossero tutte interne al corpo
docente. Pur senza il coraggio di schierarsi apertamente, gli
“accademici”, tra ingenuità e opportunismo, si fanno concreti
interpreti dello “spirito di riforma”
dell'università degli ultimi anni. Da un lato, infatti,
radicalizzano, anche nell'amministrazione dei dipartimenti, le misure
volte al dimagrimento dei servizi; dall'altro sempre più disertano
gli impegni e le responsabilità connesse alla didattica
interpretando il ruolo della docenza in università entro una
dimensione privatistica dove ciò che conta è il progresso di una
personale carriera accademica fatta di accreditamento presso
l'istituzione attraverso la produzione e la valutazione di ricerca.
Sparisce qualsiasi problematizzazione della dimensione collettiva del
sapere e della formazione.
In termini concreti
assistiamo a un accentramento delle decisioni in Consigli di
dipartimento dove spesso vige una totale arbitrarietà delle scelte
intraprese che obbediscono il più delle volte agli interessi di
questa o quella consorteria di docenti. Dunque, certo
i tagli, come la mancanza di risorse e l'applicazione dei decreti AVA
hanno una loro incidenza strutturale, ma c'è soprattutto oggi un
pezzo di gerarchia accademica medio alta – quella del corpo docente
– che usa un altro pezzo inferiore e senza potere – quello
studentesco - per salvare il salvabile mentre la barca affonda.
Eppure
alcuni equilibri iniziano a saltare su più livelli. Non solo viene
palesemente meno un patto sociale capace di garantire una
trasmissione di saperi e di ruoli a questi connessi in cambio di una
collocazione sistemica “stabile” ma, scendendo giù fino al
diritto privato, lo stesso contratto formativo si configura come
nient'altro che... una truffa!
Che
non siano le aule di lezione, gli studi dei docenti e i Consigli di
dipartimento i punti vendita a noi più vicini per reclamare un
legittimo rimborso?