Pubblichiamo
il contributo di una compagna e studentessa Unipi ora iscritta a Parigi. Una
riflessione che parte dai fatti drammatici dello scorso fine settimana a Parigi
per inserirli in un contesto più ampio che affronti la problematica della
guerra e di cosa questa significhi per noi.
“Ho gli occhi pesanti a forza di immaginare”
(F. Pessoa)
Un po’ ingenuo e autoreferenziale e
sentimentalista partire dall’esperienza personale per provare a riflettere su
questo mondo in cui siamo immersi, fino al collo.
Ma è l’unico modo che ho in questi giorni non di
facile lettura per elaborare la consapevolezza di “grondare sangue senza
accorgersene”, che sì, forse fino ad ora non aveva ancora assunto questo gusto
così amaro. Da un lato, amaro per il sentirsi inevitabilmente in
contraddizione, e dall’altro egoisticamente e ciecamente amaro per le concrete
conseguenze sulla propria vita.
Se gli sbirri arrivano correndo a chiuderti
dentro un bar dove sei a bere il tuo terzo pastis e la tua reazione, come
quella di tutti, è stata continuare a bere il tuo terzo pastis, senza pensare a
un attacco di tale portata, perchè sì al massimo c’è stata una sparatoria. Se
poi prendi la metro una fermata un po’ più in là perchè si sa, quando succedono
queste cose è meglio evitare di prendere la metro, ma a quel punto il tuo
telefono non smette di squillare perchè anche se in questa città non ti senti a
casa in realtà casa tua è dietro l’angolo e siamo tutti collegati, non solo
virtualmente. Se mentre torni a casa il sabato sera la polizia ha chiuso la
strada che percorri tutte le mattine e poi capisci che lì era stata
parcheggiata quella macchina, quella dove vengono ritrovati i kalashnikov. Se
tutti, in una di quelle globali catene di sant’Antonio, hanno almeno un
conoscente, un amico, un fratello, una sorella, che è stato colpito più o meno
in prima persona e più o meno invasivamente. Se i primi due provvedimenti presi
sono la chiusura delle frontiere e la proclamazione dello stato di emergenza.
Beh, allora mi sembra di dover scegliere fra
pochi termini per descrivere questo mondo in cui siamo immersi a Parigi in
questi giorni. Vacillo: tra uno stato di incoscienza e uno di guerra.
E se poi gli elicotteri sopra la testa ti
ricordano il tre luglio sai bene che c’è un’abnorme e esplicitatamente opposta
differenza, quella era ed è la nostra lotta. Questa è la loro guerra in cui
siamo stati coinvolti e non vogliamo.
E allora torna la coscienza.
Mi chiedo cosa si possa fare adesso. Credo che
sia importante ricollocarsi nella Storia in quanto soggetti sociali e politici
per poter immaginare il proprio margine di azione e cercare di comprendere a
partire da questo risituarsi. Non credo che qui il punto sia darsi come
obiettivo quello di eliminare Daesh (a meno che non si voglia andare a
combattere con i Curdi), o arrivare addirittura a chiedersi se i bombardamenti
su Raqqa siano o no la soluzione. Credo che si debba pensare alle cause e alle
conseguenze suscettibili di rientrare nel proprio margine di azione, siamo qui
e siamo qui per essere contro a questo sistema che ha autocreato due
nemici/amici che giocano sulla nostra pelle, con il nostro sangue (e quando
dico nostro intendo semplicemente quello di tutti. Tutte le vittime che mi
sembra superfluo enumerare in una gara a chi si ricorda di più quali altri
morti sono stati causati dalla “loro guerra, non la nostra”).
“Mais pourquoi ces gens existent ?” si chiede un
ragazzo di Molenbeek, un comune povero, del Belgio, considerato ormai
l’avanposto degli islamisti dopo gli arresti e i legami con gli attentati di
Parigi Forse una risposta si potrebbe provare a trovare se prima si riflettesse
sulle condizioni in cui vivono dei giovani, francesi di X generazione, che si
portano sulle spalle un passato pesante, non ancora risolto, di colonizzazione,
razzismo, immigrazione, stigmatizzazione. Giovani che abitano una qualche tour
di una cité qualsiasi abbandonata a se stessa o una banlieue terreno di rinnovazione
urbana che impone nuovi stili di vita, e che impone di andarsene per farsi
vedere ancora meno. Costretti a nascondersi nel retro di quella (città)vetrina
che in tanti vorremmo spaccare. Giovani che subiscono quotidianamente gli
effetti del razzismo istituzionale, a scuola, per strada, che subiscono lo
sguardo di chi sospetta, perchè arabo di origine (che chissà cosa vuol dire) e
musulmano (forse neanche credente). Bisognerebbe chiedersi cosa significhi
nascere e crescere relegati in uno spazio che è urbanisticamente simile a un
non-luogo ma in cui allo stesso tempo si creano dinamiche sociali e
esistenzialmente spinte dalla haine. Bisognerebbe chiedersi se quel meccanismo
di riappropriazione dei pregiudizi non funziona e non si trasforma autonomamente
e collettivamente in moto di resi(s)li(t)enza, quale diventi il limite. E
allora perchè dire no a una prospettiva autodistruttiva, unica forma di azione
in un’inesistenza annichilita prodotta dal sistema capitalistico, e
distruttrice che ti permette di spaccarla quella vetrina.
È qui che ci si sbaglia. Enormemente.
Perchè quella vetrina l’avremmo voluta spaccare
tutti. Ma non così.
E allora quelle vittime di Parigi, i nostri
morti, così come sono dei nostri tutti i morti, sono causati da una guerra in
cui l’Occidente si trastulla insieme ai principi sauditi, responsabili di
spargimento di sangue e creatori di mostri e per aver messo in moto una
macchina capitalistica che si autogenera nell’aumento delle disuguaglianze.
Perchè quella haine che possiamo condividere con
chi un futuro non ce l’ha ma a cui non rimane nemmeno il presente perchè si è
ridotto alla sopravvivenza non è stata incanalata nel modo giusto, ma nel senso
diametralmente opposto, ossia andando a fare una guerra che è tutta loro, contro
di noi.
E se fino ad ora non abbiato ancora agito
abbastanza per sradicare le origini di un mostro che assume le teste degli
Hollande, Renzi, Putin, Obama, IS di turno allora dovremmo almeno agire
tempestivamente nel limitarne le conseguenze.
È più che mai inquietante sentirsi limitati nelle
proprie libertà, in quel Paese che paradossalmente si autocelebra senza un
minimo di vergogna come il detentore dei diritti dell’uomo, in seguito alla
proclamazione dello stato di urgenza. Provvedimento che puzza di colonialismo.
Così come è inquietante il passaggio dei poteri dell’esercito al capo dello
stato, la decisione di prolungare lo stato di emergenza trasformandolo in stato
d’eccezione, il controllo della stampa, la possibilità delle perquisizioni
amministrative senza l’accordo del giudice, il regime di rinvio alla residenza
di tutti i possibili sospettati di terrorismo, il divieto di rassemblarsi e di
manifestare. Decisione dotata di un certo tempismo se si considerano le varie
paranoie uscite sui giornali, qualche giorno prima che uno spettro ben più
attraente si facesse avanti, dei black bloc in arrivo da tutta Europa per
contestare la COP21, altra occasione simbolo per questa città, emblema del
capitalismo globale, di farsi vetrina e portatrice di buoni propositi sul
clima.
Sicuramente il governo francese è stato in grado
di agire sul clima, non limitandone il surriscaldamento o l’inquinamento, ma
creando un clima di soffocante stato di polizia. E queste sono le conseguenze
immediate sulle nostre vite. Dover incontrare militari armati fino ai denti in
qualsiasi stazione, poliziotti annebbiati da deliri di onnipotenza tollerati
pronti a sfogare la loro frustrazione su chiunque abbia una faccia un po’ meno
europea su qualsiasi metro, angolo, parco,
doversi sentire in gabbia in università con
guardioni, altro frutto del precariato economico e sociale, che ti controllano
la tessera studenti, lo zaino, il tupperware con il pranzo, sentirsi sotto
osservazione ogni volta che una macchina della polizia fa la tua stessa strada,
addormentarsi sentendo le sirene e svegliarsi nello stesso modo in un loop
continuo. Una pressione che si intreccia con la stigmatizzazione. E che colpirà
doppiamente chi già tutti i giorni sa di dover far fronte a controlli
arbitrari, a insulti razzisti, a insinuazioni islamofobe, a impossibilità di
accesso per carenza di mezzi, a sguardi portatori di un discorso dominante
alimentato dalla paura che chi è al posto di comando ha tutto l’interesse di
sublimare con la ultrasicurizzazione.
Qualcosa ci è sfuggito di mano, stanno facendo il
loro gioco con il nostro sangue, non permettiamoglielo più.
Martina Losano ·MERCOLEDÌ 18 NOVEMBRE 2015