In queste giornate si sta approvando alla camera il Job Act, ultima
ridefinizione della politica economica italiana e base d'appoggio per
la definitiva e totale precarizzazione del mondo del lavoro,
sopratutto di quello giovanile. È di oggi la notizia dell'ennesimo
aumento della disoccupazione, alla faccia dell'ottimismo di analisti
e renziani.
Sempre tra i palazzi romani si stanno preparando i decreti attuativi
della Buona Scuola che vedranno la luce a gennaio, premesse
necessarie delle riforme del Job Act, si propongono di precarizzare e
valorizzare nel miglior modo possibile anche il mondo della
formazione.
Tra scuole e università l'orizzonte che si sta attualizzando è
quello di una scomparsa di ogni professionalizzazione, accompagnata
all'assenza di una formazione di capacità reali e critiche. "Per
chi studiamo? Per cosa studiamo?" Sono queste le domande con cui
guardare alle nuove riforme per riuscire a interpretarle. In
un'università in cui ogni approccio critico alle discipline e ogni
formazione arricchente è messa da parte, a favore di un'
apprendimento nozionistico ed esogeno in cui noi siamo dei soggetti
espropriati. Il futuro non è preso in considerazione.
Ci formano per un presente di lavoro gratuito e multifunzionale in
cui dobbiamo muoverci superficialmente da uno stage ad un tirocinio
ad un apprendistato senza avere troppe domande o troppe pretese.
Nella Buona Scuola e nei decreti degli ultimi mesi sono presentate
tutte queste dequalificazioni. Spariranno i TFA, sostituiti da una
magistrale abilitante ad accesso chiusissimo, peggiorando e
dequalificando ulteriormente le capacità e la professione
dell'insegnante, nonché la formazione di chi un domani andrà nelle
aule a formare qualcun'altro. Cosa insegnare e perché? Quali
capacità riusciremo a sviluppare se il nostro percorso anziché
arricchente e stimolante è solo una corsa ad ostacoli per accumulare
nozioni e titoli?
Il discorso non è valido solo per le facoltà umanistiche, le più
colpite da questa riforma dell'accesso all'insegnamento, ma è
declinato su tutto il mondo universitario come progressiva
deprofessionalizzazione e chiusura dell'accesso a livelli ulteriori
di studio. È il caso degli studenti di medicina, o di quelli di beni culturali. La prospettiva del lavoro gratuito come ambito di
"formazione" è esplicitata chiaramente nel modello EXPO:
diciottomila volontari che "grazie" a questa opportunità
potranno aggiornare il curriculum e crearsi la propria esperienza.
A questo punto è necessario iniziare ad elaborare una critica alla
presunta funzione professionalizzante della formazione. La
professionalità attiene alla tecnica, dunque ad un sistema di
procedure che ha in sè una matrice di interscambiabilità, cambia la
procedura, cambia la professione, cambia la formazione. È quello che
sta succedendo nel caso dell'accesso all'insegnamento, per fare un
esempio.
La formazione è un campo di contesa tra arricchimento e
impoverimento delle nostre capacità. Il potere sulle nostre vite e
sulla realtà che ci circonda si determina partendo dal capire e
sapere cosa facciamo e per chi.
La nostra è una generazione che è nata senza futuro, lo sappiamo.
Il punto è guardare al presente, la quotidianità delle nostre vite,
per chi facciamo tutto ciò?
Il futuro non l'ha mai visto nessuno, ma il presente lo vediamo ogni
giorno. Iniziamo a pensare a cosa vorremo vedere, senza considerarci
più solo vittime. Partiamo da un punto di fermezza,
dall'affermazione di un rifiuto per ciò che ci viene imposto e ci
impoverisce, materialmente e non solo.