venerdì 20 novembre 2015

Ho gli occhi pesanti a forza di immaginare



Pubblichiamo il contributo di una compagna e studentessa Unipi ora iscritta a Parigi. Una riflessione che parte dai fatti drammatici dello scorso fine settimana a Parigi per inserirli in un contesto più ampio che affronti la problematica della guerra e di cosa questa significhi per noi.  

“Ho gli occhi pesanti a forza di immaginare”   
(F. Pessoa)


Un po’ ingenuo e autoreferenziale e sentimentalista partire dall’esperienza personale per provare a riflettere su questo mondo in cui siamo immersi, fino al collo.
Ma è l’unico modo che ho in questi giorni non di facile lettura per elaborare la consapevolezza di “grondare sangue senza accorgersene”, che sì, forse fino ad ora non aveva ancora assunto questo gusto così amaro. Da un lato, amaro per il sentirsi inevitabilmente in contraddizione, e dall’altro egoisticamente e ciecamente amaro per le concrete conseguenze sulla propria vita. 

Se gli sbirri arrivano correndo a chiuderti dentro un bar dove sei a bere il tuo terzo pastis e la tua reazione, come quella di tutti, è stata continuare a bere il tuo terzo pastis, senza pensare a un attacco di tale portata, perchè sì al massimo c’è stata una sparatoria. Se poi prendi la metro una fermata un po’ più in là perchè si sa, quando succedono queste cose è meglio evitare di prendere la metro, ma a quel punto il tuo telefono non smette di squillare perchè anche se in questa città non ti senti a casa in realtà casa tua è dietro l’angolo e siamo tutti collegati, non solo virtualmente. Se mentre torni a casa il sabato sera la polizia ha chiuso la strada che percorri tutte le mattine e poi capisci che lì era stata parcheggiata quella macchina, quella dove vengono ritrovati i kalashnikov. Se tutti, in una di quelle globali catene di sant’Antonio, hanno almeno un conoscente, un amico, un fratello, una sorella, che è stato colpito più o meno in prima persona e più o meno invasivamente. Se i primi due provvedimenti presi sono la chiusura delle frontiere e la proclamazione dello stato di emergenza. 


Beh, allora mi sembra di dover scegliere fra pochi termini per descrivere questo mondo in cui siamo immersi a Parigi in questi giorni. Vacillo: tra uno stato di incoscienza e uno di guerra. 

E se poi gli elicotteri sopra la testa ti ricordano il tre luglio sai bene che c’è un’abnorme e esplicitatamente opposta differenza, quella era ed è la nostra lotta. Questa è la loro guerra in cui siamo stati coinvolti e non vogliamo. 

E allora torna la coscienza. 

Mi chiedo cosa si possa fare adesso. Credo che sia importante ricollocarsi nella Storia in quanto soggetti sociali e politici per poter immaginare il proprio margine di azione e cercare di comprendere a partire da questo risituarsi. Non credo che qui il punto sia darsi come obiettivo quello di eliminare Daesh (a meno che non si voglia andare a combattere con i Curdi), o arrivare addirittura a chiedersi se i bombardamenti su Raqqa siano o no la soluzione. Credo che si debba pensare alle cause e alle conseguenze suscettibili di rientrare nel proprio margine di azione, siamo qui e siamo qui per essere contro a questo sistema che ha autocreato due nemici/amici che giocano sulla nostra pelle, con il nostro sangue (e quando dico nostro intendo semplicemente quello di tutti. Tutte le vittime che mi sembra superfluo enumerare in una gara a chi si ricorda di più quali altri morti sono stati causati dalla “loro guerra, non la nostra”). 

“Mais pourquoi ces gens existent ?” si chiede un ragazzo di Molenbeek, un comune povero, del Belgio, considerato ormai l’avanposto degli islamisti dopo gli arresti e i legami con gli attentati di Parigi Forse una risposta si potrebbe provare a trovare se prima si riflettesse sulle condizioni in cui vivono dei giovani, francesi di X generazione, che si portano sulle spalle un passato pesante, non ancora risolto, di colonizzazione, razzismo, immigrazione, stigmatizzazione. Giovani che abitano una qualche tour di una cité qualsiasi abbandonata a se stessa o una banlieue terreno di rinnovazione urbana che impone nuovi stili di vita, e che impone di andarsene per farsi vedere ancora meno. Costretti a nascondersi nel retro di quella (città)vetrina che in tanti vorremmo spaccare. Giovani che subiscono quotidianamente gli effetti del razzismo istituzionale, a scuola, per strada, che subiscono lo sguardo di chi sospetta, perchè arabo di origine (che chissà cosa vuol dire) e musulmano (forse neanche credente). Bisognerebbe chiedersi cosa significhi nascere e crescere relegati in uno spazio che è urbanisticamente simile a un non-luogo ma in cui allo stesso tempo si creano dinamiche sociali e esistenzialmente spinte dalla haine. Bisognerebbe chiedersi se quel meccanismo di riappropriazione dei pregiudizi non funziona e non si trasforma autonomamente e collettivamente in moto di resi(s)li(t)enza, quale diventi il limite. E allora perchè dire no a una prospettiva autodistruttiva, unica forma di azione in un’inesistenza annichilita prodotta dal sistema capitalistico, e distruttrice che ti permette di spaccarla quella vetrina. 

È qui che ci si sbaglia. Enormemente. 

Perchè quella vetrina l’avremmo voluta spaccare tutti. Ma non così. 

E allora quelle vittime di Parigi, i nostri morti, così come sono dei nostri tutti i morti, sono causati da una guerra in cui l’Occidente si trastulla insieme ai principi sauditi, responsabili di spargimento di sangue e creatori di mostri e per aver messo in moto una macchina capitalistica che si autogenera nell’aumento delle disuguaglianze. 

Perchè quella haine che possiamo condividere con chi un futuro non ce l’ha ma a cui non rimane nemmeno il presente perchè si è ridotto alla sopravvivenza non è stata incanalata nel modo giusto, ma nel senso diametralmente opposto, ossia andando a fare una guerra che è tutta loro, contro di noi. 

E se fino ad ora non abbiato ancora agito abbastanza per sradicare le origini di un mostro che assume le teste degli Hollande, Renzi, Putin, Obama, IS di turno allora dovremmo almeno agire tempestivamente nel limitarne le conseguenze. 

È più che mai inquietante sentirsi limitati nelle proprie libertà, in quel Paese che paradossalmente si autocelebra senza un minimo di vergogna come il detentore dei diritti dell’uomo, in seguito alla proclamazione dello stato di urgenza. Provvedimento che puzza di colonialismo. Così come è inquietante il passaggio dei poteri dell’esercito al capo dello stato, la decisione di prolungare lo stato di emergenza trasformandolo in stato d’eccezione, il controllo della stampa, la possibilità delle perquisizioni amministrative senza l’accordo del giudice, il regime di rinvio alla residenza di tutti i possibili sospettati di terrorismo, il divieto di rassemblarsi e di manifestare. Decisione dotata di un certo tempismo se si considerano le varie paranoie uscite sui giornali, qualche giorno prima che uno spettro ben più attraente si facesse avanti, dei black bloc in arrivo da tutta Europa per contestare la COP21, altra occasione simbolo per questa città, emblema del capitalismo globale, di farsi vetrina e portatrice di buoni propositi sul clima. 

Sicuramente il governo francese è stato in grado di agire sul clima, non limitandone il surriscaldamento o l’inquinamento, ma creando un clima di soffocante stato di polizia. E queste sono le conseguenze immediate sulle nostre vite. Dover incontrare militari armati fino ai denti in qualsiasi stazione, poliziotti annebbiati da deliri di onnipotenza tollerati pronti a sfogare la loro frustrazione su chiunque abbia una faccia un po’ meno europea su qualsiasi metro, angolo, parco, 

doversi sentire in gabbia in università con guardioni, altro frutto del precariato economico e sociale, che ti controllano la tessera studenti, lo zaino, il tupperware con il pranzo, sentirsi sotto osservazione ogni volta che una macchina della polizia fa la tua stessa strada, addormentarsi sentendo le sirene e svegliarsi nello stesso modo in un loop continuo. Una pressione che si intreccia con la stigmatizzazione. E che colpirà doppiamente chi già tutti i giorni sa di dover far fronte a controlli arbitrari, a insulti razzisti, a insinuazioni islamofobe, a impossibilità di accesso per carenza di mezzi, a sguardi portatori di un discorso dominante alimentato dalla paura che chi è al posto di comando ha tutto l’interesse di sublimare con la ultrasicurizzazione. 

Qualcosa ci è sfuggito di mano, stanno facendo il loro gioco con il nostro sangue, non permettiamoglielo più. 


Martina Losano ·MERCOLEDÌ 18 NOVEMBRE 2015