domenica 16 marzo 2014

Riorganizzazione a Filologia e Economia: quei docenti a cui fa comodo incasinarci la vita

Cosa sta succedendo con la nuova dipartimentazione. Perché è possibile resistere e attaccare anche se questa Università ci frana sotto i piedi


Trovarsi orfani del corso di laurea a Filologia e rincorrere i corsi singoli di transizione

I recenti consigli del dipartimento di filologia e linguistica (ex-facoltà di Lettere e di Lingue) e le relative varie commissioni attivate sulla didattica, stanno procedendo in questi mesi a riorganizzare l'offerta formativa in previsione del prossimo anno accademico. Com'è ora e come sarà dopo: diverse magistrali scompariranno, altre verranno accorpate minando la continuità tra triennali e magistrali.
Ecco alcuni esempi. I curricula di Orientalistica, Comparatistica e Linguistica nella triennale di lettere spariranno, le magistrali in Lingue e Letterature Moderne Euroamericane (LEA) e Lingue e Letterature e Filologie Europee (LEFE) Orientalistica e Traduzione saranno soppresse. LEA e LEFE verranno accorpate in un'unica magistrale (classe LM 37), così come Traduzione e Linguistica (classe LM 39 che mischierà percorsi di lettere e di lingue).


Possiamo pensare a questa nuova possibile “(dis)organizzazione” dei dipartimenti come ad uno di quei maldestri tentativi di normalizzazione dello sconsiderato (in quanto già di per sé pieno di forzature didattiche) processo che ha portato alla fusione della facoltà di lingue con quella di lettere.
In realtà, “maldestro tentativo” forse è dir poco se si pensa anche solo ipoteticamente a tutto ciò che potrebbe comportare tale ulteriore trasformazione dei percorsi di studi in questione, in particolare sulle modalità di passaggio dalle triennali alle magistrali della nostra Università.
Proviamo ad ipotizzare questo azzardato accorpamento di linguistica e traduzione. Chi potrà accederci liberamente senza dover sopperire a una qualche lacuna (di cui, oltretutto, il singolo studente non potrà avere alcune responsabilità se non quella di aver seguito il percorso di studi impostogli dalla sua stessa triennale)? E come si tenterà di “riassorbire” gli studenti laureati che con questo accorpamento si ritrovano senza una magistrale pensata come continuazione del loro indirizzo di studi?

A riguardo pensiamo anche solo a come, già tuttora, (mal) funzionano i corsi singoli di transizione: un limbo dove rischia di precipitare, più o meno incoscientemente, qualsiasi studente che tenta un percorso nemmeno così insolito (come adesso può accadere nel passaggio da una triennale di lettere alla magistrale di informatica umanistica). Infatti, l'Univerisità di Pisa, con tutte le sue pretese di apparire chiara e limpida (attrattiva?) nelle presentazioni dei suoi regolamenti a chi da fuori cerca informazioni su una possibile iscrizione, non è mai però particolarmente esaustiva nello spiegare come può succedere che passi quasi un anno prima che uno studente possa risultare iscritto alla facoltà che desidera sentendosi un mezzo-quasi studente; il tutto semplicemente perché non si soddisfano i requisiti definiti necessari per accedere a determinati corsi di studi, perché bisogna saldare un “debito formativo” mai contratto (spiegazione ufficiale) o, molto più chiaramente, perché le modalità di accesso imposte risultano atte esclusivamente a complicare la vita agli studenti, portandoli a far loro perdere tempo, voglia e soldi.


Moltiplicare gli sbarramenti a Economia

Grosso modo lo stesso effetto depressivo sortiscono le misure adottate di recente in Economia. Innanzitutto un appello d'esame è stato eliminato dal calendario didattico inoltre il consiglio di dipartimento ha avviato un'indagine sulla media dei voti degli studenti di Economia al fine di innalzare il voto di laurea minimo necessario per accedere alla laurea magistrale (la cosiddetta “soglia”). Eppure questa moltiplicazione di sbarramenti sembra non obbedire altro che ad una logica di scoraggiamento imperniata su una competitività che però non garantisce di premiare proprio nessun merito.

Sono recenti i risultati delle indagini di Almalaurea i quali affermano che il “rendimento” della laurea è in Italia è decisamente basso. Chi lavora con una laurea in tasca guadagna solo l'11% in più di chi è diplomato e basta. Per Visco, governatore Bankitalia, bisogna adeguare il sistema formazione ai principi di flessibilità, competitività e rapido cambiamento del mondo del lavoro, omogeneizzare il mercato. Ma di fatto già si sta dando un'omogeneizzazione: salariale e di classe. I “fortunati” laureati guadagnano tra gli 800 (se con laurea di primo livello) e i 1000 euro al mese (se con laurea di secondo livello). Solo un terzo, il 33% dei laureati, ha un impiego stabile.

Quindi debiti formativi, soglie, riduzione delle possibilità nel proseguire e nell'intraprendere una carriera accademica sembrano essere i dispositivi tramite i quali strutturare la rimercificazione di una forza lavoro in formazione alla quale viene imposto un saldo negativo tra aspettative e distruzione di capacità, tempo e reddito negli studi.
Ma allora, come unica alternativa tra l'abbandono e la scommessa sulla competitività, ci resta solo una rassegnata vita studentesca? No, sentirci in colpa anche per l'incasinamento dell'università proprio no... proviamo piuttosto a risalire una catena di responsabilità.


Professori: utili idioti, ignavi o responsabili a pieno titolo?

Nel dipartimento di Filologia, ad esempio, le ipotesi di riorganizzazione attuali sono filiazione diretta delle scelte che all'inizio dell'ultima estate hanno portato il consiglio di dipartimento di Filologia, a togliere l’appello d’esame di dicembre. Fin da subito apparve chiaro come, al di là di una poco convincente scusa di adeguare i calendari delle due ex facoltà, le responsabilità di questa scelta fossero tutte interne al corpo docente. Pur senza il coraggio di schierarsi apertamente, gli “accademici”, tra ingenuità e opportunismo, si fanno concreti interpreti dello “spirito di riforma” dell'università degli ultimi anni. Da un lato, infatti, radicalizzano, anche nell'amministrazione dei dipartimenti, le misure volte al dimagrimento dei servizi; dall'altro sempre più disertano gli impegni e le responsabilità connesse alla didattica interpretando il ruolo della docenza in università entro una dimensione privatistica dove ciò che conta è il progresso di una personale carriera accademica fatta di accreditamento presso l'istituzione attraverso la produzione e la valutazione di ricerca. Sparisce qualsiasi problematizzazione della dimensione collettiva del sapere e della formazione.

In termini concreti assistiamo a un accentramento delle decisioni in Consigli di dipartimento dove spesso vige una totale arbitrarietà delle scelte intraprese che obbediscono il più delle volte agli interessi di questa o quella consorteria di docenti. Dunque, certo i tagli, come la mancanza di risorse e l'applicazione dei decreti AVA hanno una loro incidenza strutturale, ma c'è soprattutto oggi un pezzo di gerarchia accademica medio alta – quella del corpo docente – che usa un altro pezzo inferiore e senza potere – quello studentesco - per salvare il salvabile mentre la barca affonda.
Eppure alcuni equilibri iniziano a saltare su più livelli. Non solo viene palesemente meno un patto sociale capace di garantire una trasmissione di saperi e di ruoli a questi connessi in cambio di una collocazione sistemica “stabile” ma, scendendo giù fino al diritto privato, lo stesso contratto formativo si configura come nient'altro che... una truffa!
Che non siano le aule di lezione, gli studi dei docenti e i Consigli di dipartimento i punti vendita a noi più vicini per reclamare un legittimo rimborso?